La tragica sorte di una donna iraniana in metro: tra repressione e diritti negati

donna iraniana in metro

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In una nazione dove la religione e la tradizione sono fondamentali nella vita quotidiana, è inquietante pensare alle conseguenze che si possono subire in caso di non conformismo. Un esempio lampante di ciò è la storia di Armita Garavand, una giovane di soli 16 anni, attualmente in coma in un ospedale di Teheran.

Le circostanze che hanno portato a questa tragica condizione sono avvolte nel mistero e nell’ambiguità. Secondo alcune fonti, Armita avrebbe avuto una discussione con le autorità della metropolitana di Teheran perché rifiutava di indossare il velo islamico. È stata l’organizzazione curda per i diritti umani Hengaw, con sede a Oslo, a denunciare questo episodio, attirando così l’attenzione internazionale su di esso.

Tuttavia, le autorità iraniane, rappresentate dall’agenzia ufficiale IRNA, hanno fornito una versione completamente diversa dei fatti. Secondo loro, la giovane sarebbe semplicemente svenuta a causa di un improvviso calo di pressione, cadendo e battendo la testa. Le immagini di sorveglianza rese pubbliche mostrano Armita e due delle sue amiche nella metropolitana, e successivamente le amiche la sostengono.

Ma Amnistia Internazionale, l’organizzazione internazionale per i diritti umani, ha sollevato dubbi sulla veridicità del video. Secondo loro, il filmato sarebbe stato alterato e avrebbero notato delle interruzioni temporali.

Questo dramma richiama alla mente un caso simile accaduto solo un anno fa. Mahsa Amini, un’altra giovane donna iraniana, morì in circostanze misteriose. La sua morte venne attribuita a “cause naturali” dopo il suo arresto da parte della cosiddetta “polizia della moralità” per non aver indossato correttamente il velo islamico. La morte di Mahsa scatenò proteste su vasta scala in tutto il paese, rese ancora più violente dalla dura repressione governativa. Si stima che queste proteste abbiano causato la morte di 500 persone, l’arresto di 22.000 manifestanti e l’esecuzione di sette di loro.

Nonostante la repressione, l’eco della morte di Mahsa non si è placata. Il primo anniversario della sua morte, commemorato lo scorso 16 settembre, è stato segnato da una massiccia presenza delle forze di sicurezza e da poche, ma significative, proteste.

Il governo iraniano ha recentemente rafforzato le sue politiche riguardo al velo. Sono state introdotte pattuglie per le strade e a chi viene sorpreso senza velo possono essere negate alcune servizi essenziali. Una nuova legge ha inoltre aumentato le pene per chi non copre i capelli.

Ma il dramma non finisce qui. Nel mezzo di tutto questo caos, due coraggiose giornaliste, Nilufar Hamedi ed Elahe Mohammadi, che avevano riportato il caso di Mahsa, sono state condannate a lunghe pene detentive. Sono state accusate di collaborazione con il “nemico”, il governo degli Stati Uniti, tra altre gravi accuse.

Mentre il mondo guarda, l’Iran continua a combattere con le proprie tradizioni e la richiesta di maggiore libertà e diritti umani. La situazione di Armita e delle due giornaliste è un duro promemoria delle sfide che le donne, in particolare, devono affrontare in un paese in cui la religione e la politica sono così strettamente intrecciate.